Un ebreo e un palestinese, uniti dalla perdita delle figlie, raccontano ai vescovi lombardi la forza della riconciliazione.

Sono stati ancora i bambini, dopo quelli incontrati al mattino nel villaggio beduino nel deserto di Giuda, i protagonisti degli incontri che nel pomeriggio di ieri hanno coinvolto i vescovi lombardi pellegrini in Terrasanta.


Anzitutto i piccoli dell’Istituto Effatà, a Betlemme, uno dei lasciti più belli del celebre viaggio nel 1964 di Paolo VI, che volle fortemente quest’opera pensata per i bambini audiolesi, una problematica particolarmente diffusa in questa zona per motivi genetici.


Erano soprattutto femmine quelle che hanno accolto i presuli, incantati davanti a canti e balli ritmati alla perfezione, nonostante tutte abbiano problemi di udito e alcune di loro siano quasi completamente sorde. Ad accompagnare un percorso che è insieme di istruzione e di riabilitazione sono alcune suore Dorotee. Il racconto della superiora, italiana, è fatto di luci e ombre: “I frutti del bene che abbiamo seminato in questi anni li tocchiamo con mano: ad esempio quando organizziamo qualche ritrovo di ex alunni ne nasce una festa che non finisce mai. E ci dà grande gioia vedere ragazzi e ragazze ormai adulti inseriti nel mondo del lavoro nonostante un handicap che a volte non può essere del tutto eliminato”.


Ma il conflitto che dura da quasi 80 anni e la nuova fase di crisi iniziata dopo il 7 ottobre non possono non farsi sentire: “Avevamo oltre 200 studenti – ha spiegato ancora suor Carmela - che ora sono molto diminuiti. Le difficoltà di movimento dai territori della Cisgiordania sono diventate troppo grandi, così come troppi, per una popolazione sempre più povera, sono i 600 euro all’anno che chiediamo come retta, una cifra che peraltro non copre certo le nostre spese”.


E bambini, loro malgrado, erano anche le vittime dei due gesti di violenza che ne hanno interrotto precocemente le vite. Un dolore atroce che ha portato però due padri a incrociare le loro strade, nel segno della riconciliazione. È la storia toccante che i vescovi hanno potuto ascoltare nel pomeriggio, sempre a Betlemme, dopo avere concelebrato la Messa nella Basilica della Natività, presieduta dall’Arcivescovo di Milano, nonché Metropolita, mons. Delpini.  


“Sono Rami, 76 anni, ebreo che vive a Gerusalemme da sette generazioni – ha detto il primo dei due, presentando se stesso e poi l’uomo seduto accanto a lui –. Questo è Bassam, è palestinese ma è uno dei miei amici più cari. Ciò che ci rende così vicini è il fatto che abbiamo pagato lo stesso prezzo a una violenza insensata”. Rami ha perso la figlia 14enne in un attentato terroristico palestinese: “Si chiamava Smadar (che significa grappolo d’uva), era vivace, una studentessa eccellente, suonava il pianoforte. C’è voluto tempo ma poi ho iniziato a chiedermi che cosa potevo fare dell’odio che sentivo dentro. La prima risposta è la vendetta, è la scelta che fanno in molti. Ma poi capisci che il potere del dolore è più forte dell’energia nucleare. Puoi usarla per portare altro dolore o per portare pace. Con l’associazione dei Parents Circle incontriamo ragazzi israeliani e palestinesi e diciamo loro che il nostro sangue ha lo stesso colore, le nostre lacrime sono amare allo stesso modo, il nostro dolore è lo stesso”.


Lo stesso dolore di Bassam, appunto, che ha passato sette anni nelle carceri israeliane e ha sempre visto gli ebrei come un nemico da studiare così da sconfiggerlo meglio. “Per questo, racconta, a un certo punto della mia vita mi sono messo a leggere cose sulla Shoah, convinto che fosse un’invenzione. Da lì qualcosa è cambiato, ho iniziato a frequentare ebrei che si opponevano all’occupazione israeliana e ho incontrato i Parents Circle senza immaginare che un giorno ne avrei fatto parte anch’io”. Poi, in un giorno del 2007, la figlia Bassam, 10 anni, è stata uccisa appena uscita da scuola da un soldato israeliano. “Per provare a salvarla è stata portata nello stesso ospedale in cui è morta la figlia di Rami, alcuni anni prima. Ci conoscevamo già, ma da quel giorno abbiamo cominciato a frequentarci di più e a portare insieme la nostra testimonianza: se noi possiamo chiamarci fratelli chiunque lo può fare”.


di STEFANO FEMMINIS
dal portale della Diocesi chiesadimilano.it