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  • Giornata CARITAS – 5 novembre

    Volantino Caritas 17

     

    MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

    I GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

    Domenica XXXIII del Tempo Ordinario
    19 novembre 2017

     

    Non amiamo a parole ma con i fatti

     

    1. «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1 Gv 3,18). Queste parole dell’apostolo Giovanni esprimono un imperativo da cui nessun cristiano può prescindere. La serietà con cui il “discepolo amato” trasmette fino ai nostri giorni il comando di Gesù è resa ancora più accentuata per l’opposizione che rileva tra le parole vuote che spesso sono sulla nostra bocca e i fatti concreti con i quali siamo invece chiamati a misurarci. L’amore non ammette alibi: chi intende amare come Gesù ha amato, deve fare proprio il suo esempio; soprattutto quando si è chiamati ad amare i poveri. Il modo di amare del Figlio di Dio, d’altronde, è ben conosciuto, e Giovanni lo ricorda a chiare lettere. Esso si fonda su due colonne portanti: Dio ha amato per primo (cfr 1 Gv 4,10.19); e ha amato dando tutto sé stesso, anche la propria vita (cfr 1 Gv 3,16).

    Un tale amore non può rimanere senza risposta. Pur essendo donato in maniera unilaterale, senza richiedere cioè nulla in cambio, esso tuttavia accende talmente il cuore che chiunque si sente portato a ricambiarlo nonostante i propri limiti e peccati. E questo è possibile se la grazia di Dio, la sua carità misericordiosa viene accolta, per quanto possibile, nel nostro cuore, così da muovere la nostra volontà e anche i nostri affetti all’amore per Dio stesso e per il prossimo. In tal modo la misericordia che sgorga, per così dire, dal cuore della Trinità può arrivare a mettere in movimento la nostra vita e generare compassione e opere di misericordia per i fratelli e le sorelle che si trovano in necessità.

    2. «Questo povero grida e il Signore lo ascolta» (Sal 34,7). Da sempre la Chiesa ha compreso l’importanza di un tale grido. Possediamo una grande testimonianza fin dalle prime pagine degli Atti degli Apostoli, là dove Pietro chiede di scegliere sette uomini «pieni di Spirito e di sapienza» (6,3) perché assumessero il servizio dell’assistenza ai poveri. È certamente questo uno dei primi segni con i quali la comunità cristiana si presentò sulla scena del mondo: il servizio ai più poveri. Tutto ciò le era possibile perché aveva compreso che la vita dei discepoli di Gesù doveva esprimersi in una fraternità e solidarietà tali, da corrispondere all’insegnamento principale del Maestro che aveva proclamato i poveri beati ed eredi del Regno dei cieli (cfr Mt 5,3).

    «Vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,45). Questa espressione mostra con evidenza la viva preoccupazione dei primi cristiani. L’evangelista Luca, l’autore sacro che più di ogni altro ha dato spazio alla misericordia, non fa nessuna retorica quando descrive la prassi di condivisione della prima comunità. Al contrario, raccontandola intende parlare ai credenti di ogni generazione, e quindi anche a noi, per sostenerci nella testimonianza e provocare la nostra azione a favore dei più bisognosi. Lo stesso insegnamento viene dato con altrettanta convinzione dall’apostolo Giacomo, che, nella sua Lettera, usa espressioni forti ed incisive: «Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disonorato il povero! Non sono forse i ricchi che vi opprimono e vi trascinano davanti ai tribunali? […] A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta» (2,5-6.14-17).

    3. Ci sono stati momenti, tuttavia, in cui i cristiani non hanno ascoltato fino in fondo questo appello, lasciandosi contagiare dalla mentalità mondana. Ma lo Spirito Santo non ha mancato di richiamarli a tenere fisso lo sguardo sull’essenziale. Ha fatto sorgere, infatti, uomini e donne che in diversi modi hanno offerto la loro vita a servizio dei poveri. Quante pagine di storia, in questi duemila anni, sono state scritte da cristiani che, in tutta semplicità e umiltà, e con la generosa fantasia della carità, hanno servito i loro fratelli più poveri!

    Tra tutti spicca l’esempio di Francesco d’Assisi, che è stato seguito da numerosi altri uomini e donne santi nel corso dei secoli. Egli non si accontentò di abbracciare e dare l’elemosina ai lebbrosi, ma decise di andare a Gubbio per stare insieme con loro. Lui stesso vide in questo incontro la svolta della sua conversione: «Quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo» (Test 1-3: FF 110). Questa testimonianza manifesta la forza trasformatrice della carità e lo stile di vita dei cristiani.

    Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita. Infatti, la preghiera, il cammino del discepolato e la conversione trovano nella carità che si fa condivisione la verifica della loro autenticità evangelica. E da questo modo di vivere derivano gioia e serenità d’animo, perché si tocca con mano la carne di Cristo. Se vogliamo incontrare realmente Cristo, è necessario che ne tocchiamo il corpo in quello piagato dei poveri, come riscontro della comunione sacramentale ricevuta nell’Eucaristia. Il Corpo di Cristo, spezzato nella sacra liturgia, si lascia ritrovare dalla carità condivisa nei volti e nelle persone dei fratelli e delle sorelle più deboli. Sempre attuali risuonano le parole del santo vescovo Crisostomo: «Se volete onorare il corpo di Cristo, non disdegnatelo quando è nudo; non onorate il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del tempio trascurate quest’altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità» (Hom. in Matthaeum, 50, 3: PG 58).

    Siamo chiamati, pertanto, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, abbracciarli, per far sentire loro il calore dell’amore che spezza il cerchio della solitudine. La loro mano tesa verso di noi è anche un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce.

    4. Non dimentichiamo che per i discepoli di Cristo la povertà è anzitutto una vocazione a seguire Gesù povero. È un cammino dietro a Lui e con Lui, un cammino che conduce alla beatitudine del Regno dei cieli (cfr Mt 5,3; Lc 6,20). Povertà significa un cuore umile che sa accogliere la propria condizione di creatura limitata e peccatrice per superare la tentazione di onnipotenza, che illude di essere immortali. La povertà è un atteggiamento del cuore che impedisce di pensare al denaro, alla carriera, al lusso come obiettivo di vita e condizione per la felicità. E’ la povertà, piuttosto, che crea le condizioni per assumere liberamente le responsabilità personali e sociali, nonostante i propri limiti, confidando nella vicinanza di Dio e sostenuti dalla sua grazia. La povertà, così intesa, è il metro che permette di valutare l’uso corretto dei beni materiali, e anche di vivere in modo non egoistico e possessivo i legami e gli affetti (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 25-45).

    Facciamo nostro, pertanto, l’esempio di san Francesco, testimone della genuina povertà. Egli, proprio perché teneva fissi gli occhi su Cristo, seppe riconoscerlo e servirlo nei poveri. Se, pertanto, desideriamo offrire il nostro contributo efficace per il cambiamento della storia, generando vero sviluppo, è necessario che ascoltiamo il grido dei poveri e ci impegniamo a sollevarli dalla loro condizione di emarginazione. Nello stesso tempo, ai poveri che vivono nelle nostre città e nelle nostre comunità ricordo di non perdere il senso della povertà evangelica che portano impresso nella loro vita.

    5. Conosciamo la grande difficoltà che emerge nel mondo contemporaneo di poter identificare in maniera chiara la povertà. Eppure, essa ci interpella ogni giorno con i suoi mille volti segnati dal dolore, dall’emarginazione, dal sopruso, dalla violenza, dalle torture e dalla prigionia, dalla guerra, dalla privazione della libertà e della dignità, dall’ignoranza e dall’analfabetismo, dall’emergenza sanitaria e dalla mancanza di lavoro, dalle tratte e dalle schiavitù, dall’esilio e dalla miseria, dalla migrazione forzata. La povertà ha il volto di donne, di uomini e di bambini sfruttati per vili interessi, calpestati dalle logiche perverse del potere e del denaro. Quale elenco impietoso e mai completo si è costretti a comporre dinanzi alla povertà frutto dell’ingiustizia sociale, della miseria morale, dell’avidità di pochi e dell’indifferenza generalizzata!

    Ai nostri giorni, purtroppo, mentre emerge sempre più la ricchezza sfacciata che si accumula nelle mani di pochi privilegiati, e spesso si accompagna all’illegalità e allo sfruttamento offensivo della dignità umana, fa scandalo l’estendersi della povertà a grandi settori della società in tutto il mondo. Dinanzi a questo scenario, non si può restare inerti e tanto meno rassegnati. Alla povertà che inibisce lo spirito di iniziativa di tanti giovani, impedendo loro di trovare un lavoro; alla povertà che anestetizza il senso di responsabilità inducendo a preferire la delega e la ricerca di favoritismi; alla povertà che avvelena i pozzi della partecipazione e restringe gli spazi della professionalità umiliando così il merito di chi lavora e produce; a tutto questo occorre rispondere con una nuova visione della vita e della società.

    Tutti questi poveri – come amava dire il Beato Paolo VI – appartengono alla Chiesa per «diritto evangelico» (Discorso di apertura della II sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 29 settembre 1963) e obbligano all’opzione fondamentale per loro. Benedette, pertanto, le mani che si aprono ad accogliere i poveri e a soccorrerli: sono mani che portano speranza. Benedette le mani che superano ogni barriera di cultura, di religione e di nazionalità versando olio di consolazione sulle piaghe dell’umanità. Benedette le mani che si aprono senza chiedere nulla in cambio, senza “se”, senza “però” e senza “forse”: sono mani che fanno scendere sui fratelli la benedizione di Dio.

    6. Al termine del Giubileo della Misericordia ho voluto offrire alla Chiesa la Giornata Mondiale dei Poveri, perché in tutto il mondo le comunità cristiane diventino sempre più e meglio segno concreto della carità di Cristo per gli ultimi e i più bisognosi. Alle altre Giornate mondiali istituite dai miei Predecessori, che sono ormai una tradizione nella vita delle nostre comunità, desidero che si aggiunga questa, che apporta al loro insieme un elemento di completamento squisitamente evangelico, cioè la predilezione di Gesù per i poveri.

    Invito la Chiesa intera e gli uomini e le donne di buona volontà a tenere fisso lo sguardo, in questo giorno, su quanti tendono le loro mani gridando aiuto e chiedendo la nostra solidarietà. Sono nostri fratelli e sorelle, creati e amati dall’unico Padre celeste. QuestaGiornata intende stimolare in primo luogo i credenti perché reagiscano alla cultura dello scarto e dello spreco, facendo propria la cultura dell’incontro. Al tempo stesso l’invito è rivolto a tutti, indipendentemente dall’appartenenza religiosa, perché si aprano alla condivisione con i poveri in ogni forma di solidarietà, come segno concreto di fratellanza. Dio ha creato il cielo e la terra per tutti; sono gli uomini, purtroppo, che hanno innalzato confini, mura e recinti, tradendo il dono originario destinato all’umanità senza alcuna esclusione.

    7. Desidero che le comunità cristiane, nella settimana precedente la Giornata Mondiale dei Poveri, che quest’anno sarà il 19 novembre, XXXIII domenica del Tempo Ordinario, si impegnino a creare tanti momenti di incontro e di amicizia, di solidarietà e di aiuto concreto. Potranno poi invitare i poveri e i volontari a partecipare insieme all’Eucaristia di questa domenica, in modo tale che risulti ancora più autentica la celebrazione della Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo, la domenica successiva. La regalità di Cristo, infatti, emerge in tutto il suo significato proprio sul Golgota, quando l’Innocente inchiodato sulla croce, povero, nudo e privo di tutto, incarna e rivela la pienezza dell’amore di Dio. Il suo abbandonarsi completamente al Padre, mentre esprime la sua povertà totale, rende evidente la potenza di questo Amore, che lo risuscita a vita nuova nel giorno di Pasqua.

    In questa domenica, se nel nostro quartiere vivono dei poveri che cercano protezione e aiuto, avviciniamoci a loro: sarà un momento propizio per incontrare il Dio che cerchiamo. Secondo l’insegnamento delle Scritture (cfr Gen 18,3-5; Eb 13,2), accogliamoli come ospiti privilegiati alla nostra mensa; potranno essere dei maestri che ci aiutano a vivere la fede in maniera più coerente. Con la loro fiducia e disponibilità ad accettare aiuto, ci mostrano in modo sobrio, e spesso gioioso, quanto sia decisivo vivere dell’essenziale e abbandonarci alla provvidenza del Padre.

    8. A fondamento delle tante iniziative concrete che si potranno realizzare in questa Giornata ci sia sempre la preghiera. Non dimentichiamo che il Padre nostro è la preghiera dei poveri. La richiesta del pane, infatti, esprime l’affidamento a Dio per i bisogni primari della nostra vita. Quanto Gesù ci ha insegnato con questa preghiera esprime e raccoglie il grido di chi soffre per la precarietà dell’esistenza e per la mancanza del necessario. Ai discepoli che chiedevano a Gesù di insegnare loro a pregare, Egli ha risposto con le parole dei poveri che si rivolgono all’unico Padre in cui tutti si riconoscono come fratelli. Il Padre nostro è una preghiera che si esprime al plurale: il pane che si chiede è “nostro”, e ciò comporta condivisione, partecipazione e responsabilità comune. In questa preghiera tutti riconosciamo l’esigenza di superare ogni forma di egoismo per accedere alla gioia dell’accoglienza reciproca.

    9. Chiedo ai confratelli vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi – che per vocazione hanno la missione del sostegno ai poveri –, alle persone consacrate, alle associazioni, ai movimenti e al vasto mondo del volontariato di impegnarsi perché con questa Giornata Mondiale dei Poveri si instauri una tradizione che sia contributo concreto all’evangelizzazione nel mondo contemporaneo.

    Questa nuova Giornata Mondiale, pertanto, diventi un richiamo forte alla nostra coscienza credente affinché siamo sempre più convinti che condividere con i poveri ci permette di comprendere il Vangelo nella sua verità più profonda. I poveri non sono un problema: sono una risorsa a cui attingere per accogliere e vivere l’essenza del Vangelo.

    Dal Vaticano, 13 giugno 2017

    Memoria di Sant’Antonio di Padova

     

    Francesco

  • La santità: ideale desiderabile al cuore dell’uomo del nostro tempo

    Il mese di novembre, sentito perlopiù come un tempo malinconico, inizia in realtà nel modo migliore, con la celebrazione della solennità di tutti i santi. San Bernardo di Chiaravalle dice: “Per parte mia devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri”. I desideri e la santità? Possono stare insieme? Certo! La vita dei santi è una esistenza riuscita, compiuta, spesso passata attraverso prove. Se compresa bene, la santità è un ideale profondamente desiderabile al cuore dell’uomo e della donna anche del nostro tempo. Pensiamo solo a due santi canonizzati un anno fa: Madre Teresa di Calcutta, che ha saputo incarnare la misericordia di Dio attraverso una compassione profonda per tutte le persone emarginate; Ludovico Pavoni, che ha unito attenzione sociale, educativa e professionale. Quante figure stupende ha la nostra Chiesa! Gianna Beretta Molla, Enrichetta Alfieri, Luigi Monti, Carlo Gnocchi, Luigi Monza, Luigi Talamoni e tanti altri. La solennità di tutti i santi ce li fa ricordare “insieme”, cioè come “comunione dei santi”. Infatti, una vita santa è sempre una “vita in relazione”. L’amicizia tra i santi è uno spettacolo di umanità. Questo ci ricorda che anche noi siamo fatti non per la solitudine ma per vivere in comunione gli uni con gli altri. Da questa solennità discende una luce potente anche sulla commemorazione di tutti i defunti (2 novembre). Pensiamo ai nostri cari “passati all’altra riva”, preghiamo per loro, andiamo a far loro visita al cimitero, sostenuti dalla grande speranza che ha animato la vita dei santi: Gesù, crocifisso e risorto, ha vinto il male e la morte. Il filosofo Gabriel Marcel affermava: “dire ad una persona: ti amo, è come dire: tu non morirai”. Perché l’amore vince la morte. La speranza cristiana ha l’audacia di credere nella “risurrezione della carne”. E’ l’annuncio che tutto quanto abbiamo vissuto in questa vita non andrà perduto, sarà trasfigurato in Dio; ritroveremo i volti che abbiamo amato. I santi sono stati mossi da questa speranza; per questo hanno vissuto “alla grande” e ci invitano a fare lo stesso. 

    + Paolo Martinelli
    Vescovo e Vicario episcopale

  • Accogliere l’Arcivescovo Mario: la bellezza di un cammino di concretezza

    Ci ha colpito tutti l’intensità della preghiera liturgica e nello stesso tempo la scioltezza familiare con cui si è presentato e noi abbiamo accolto il nostro nuovo Arcivescovo Mario Delpini. Mi è sembrato che questo possa essere lo stile per il cammino della nostra Chiesa: siamo Chiesa che nella celebrazione domenicale contempla l’opera di Dio e nello stesso tempo si sente sicura, aperta, e sciolta. Sicura di essere amata dal suo Signore. Sciolta da paure che non la rendono capace di vedere di quante pietre vive e preziose è composta, e di appassionarsi ad essere un segno della Gerusalemme nuova che l’Agnello va costruendo con il dono del suo sangue. Sciolta dall’inerzia del “si è sempre fatto così” e aperta ad imparare a fare, a tutti i livelli, un “cammino insieme”, che è sempre opera dello Spirito santo, che è disciplinato nell’agire e coraggioso nelle riforme necessarie nel cambiamento d’epoca che stiamo attraversando.

    Abbiamo accolto “l’Arcivescovo”. Noi ambrosiani siamo fatti così: accogliamo l’Arcivescovo perché è l’Arcivescovo, così come accogliamo il Parroco perché è il Parroco. Qualche volta anche noi siamo tentati di personalizzare la figura vescovo, creando tifosi e avversari per i più svariati motivi, ma credo che lo stile dell’Arcivescovo Mario ci aiuterà a ritrovare la scioltezza e la bellezza di un cammino che continua, senza perdere nulla dei passi fatti, anzi valorizzandoli per procedere insieme nel cammino. Personalmente ritengo che il nostro non sia il tempo del “ricominciare da capo” o degli “effetti speciali che ci stupiscono”, piuttosto quello della concretezza, del creare insieme condizioni che ci rendano vicini, solidali, contenti di vedere altri, i piccoli e i poveri, a loro volta contenti.

    Abbiamo accolto l’Arcivescovo “Mario”. Con la sua originalità, il suo stile, la sua storia e il suo cammino. Abbiamo già condiviso con lui molti anni nel servizio alla Chiesa, e moltissimi lo hanno incontrato nelle sue visite alle parrocchie e ai Decanati. “Un editto che vorrei enunciare – ha detto qualche settimana fa scherzando, ma non troppo – è che è proibito lamentarsi su come vanno le cose, ma essere gente che, prendendo visione delle cose, mette mano ad aggiustare questo mondo, senza presunzione di avere ricette già pronte, proprio perché siamo tutti chiamati a mettere a frutto la vocazione che abbiamo ricevuto, ognuno con i propri carismi”. Credo proprio che il nuovo Arcivescovo ci farà lavorare tanto! E ci farà lavorare “insieme”.

    + Franco Agnesi
    Vicario episcopale

  • Scuola di italiano per stranieri

    A seguire tutte le informazioni della scuola di italiano per stranieri.

    Volantino

    Brochure

    Ricerca volontari

  • Card. C.M. Martini – Parole e Vita

    La sera del 6 settembre 2017 abbiamo vissuto in Basilica una serata di preghiera e riflessione nel V anniversario della morte del card. Carlo Maria Martini, organizzata dall’Azione Cattolica, dal significativo titolo “Parole e Vita”. Mons. Giovanni Giudici, già suo Vicario generale e successivamente Vescovo di Pavia, ha portato la preziosa testimonianza che qui riportiamo.

     

    PAROLE E VITA

    Nel quinto anniversario della morte del Card. Martini

    Un famoso storico della Chiesa narra che quando morì Carlo Borromeo, molti ecclesiastici commentarono il fatto usando questa immagine: “Si è spenta una luce in Israele”. Siamo qui radunati, nella persuasione che la luce che si è accesa per noi, negli anni del ministero di Martini a Milano, ci è stata consegnata, e va conservata viva.

    Abbiamo ascoltato le parole del Cardinale, ci sono state ricordate le sue scelte, abbiamo potuto sentire di nuovo brani che fanno presenti a noi lo suo stile di vita. Tutto questo è stato ed è ricchezza per noi. Desideriamo che continui ad esserlo per noi, e per quanti non hanno avuto il dono e la responsabilità di conoscerlo, di ascoltarlo, di accogliere il suo magistero.

    Intendo richiamare alcune caratteristiche del magistero del Cardinale, proprio a partire dalla preghiera che abbiamo insieme vissuto ascoltando le parole sue e di altri testimoni.

    Il primo aspetto che desidero richiamare, si collega con la scelta di offrire alla Diocesi, nella prima lettera pastorale che ci ha scritto, un invito inatteso. Nella metropoli  di Milano, e in buona parte della terra lombarda, per tradizione attiva e impegnata nella produzione di beni e servizi, egli ha scritto: “La dimensione contemplativa della vita”.

    Si è trattato dell’inizio di un magistero, ma anche di un ministero, volto a riaffermare il senso, il valore, la fecondità della trascendenza. Pensiamo alla scelta di proporre Ritiri Spirituali a tutto il clero: almeno tre volte ha attuato  questa iniziativa.

    Ravvivare il senso di Dio, richiamare la possibilità di dialogare con Lui, di avvertirlo come presente e sovranamente attivo nella propria vita, significa insegnare a stare in piedi nel turbine quotidiano di fatti, notizie, mode. Il confrontarsi con Dio consente di comprendere meglio il proprio cammino ed abituarsi a pensare e a credere che il Signore ha un progetto su ciascuno di noi. Chi accetta di aprire il discorso sulla volontà di Dio, che ci attira e che noi scegliamo, privilegia la voce interiore dello Spirito, e la privilegia rispetto alle proprie voglie, e ai propri desideri; chi si propone come fine l’incontrare Dio, diviene una persona capace di voler bene. E la scelta di farsi accompagnare e sostenere dall’amore di Dio rende ricco di significato il lavoro, la propria appartenenza familiare, la propria presenza nella società.

    Ecco perché non rinunciò mai a predicare gli Esercizi Spirituali, a raccogliere in ritiro i preti e ogni ordine di credenti, a insistere tanto sulla scelta di sostenere la propria giornata con la Lectio divina serale o mattutina.

    Un secondo aspetto che è opportuno richiamare, riguarda lo stile di vita e di rapporti istituzionali e personali che il Cardinale Martini ha vissuto, e per i quali è importante per noi guardarlo come modello.

    Come sappiamo, secondo il Vaticano II, la rivelazione di Dio agli uomini non è un contenuto –verità da credere- ma un evento di incontro, di relazione, di comunicazione, di scambio. Dio “nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (Dei Verbum n.2).

    Carlo Maria Martini possiamo dire che ha una concezione “relazionale” dell’annuncio. Mostra sempre una grande sensibilità nei confronti delle persone a cui parla: ha il dono di ‘interpretare’ i suoi ascoltatori, le loro attese. Quando presentava la dottrina della Chiesa sembrava proporla comprendendo le ragioni della gente, e la loro difficoltà a credere. Esponeva il pensiero cattolico, il messaggio evangelico, non entrando mai in polemica con nessuno. Non usava mai l’espediente, tanto comune tra noi predicatori, di descrivere il male, gli errori, i limiti della situazione, oppure di prefigurarsi un avversario con cui fare polemica. Allievo della Parola, sapeva bene che non significa nulla l’elencare tutti i lati negativi di una situazione, perchè il seme della Parola è così fecondo da fruttificare in ogni situazione umana.

    La Parola di Dio infatti salva per se stessa, tocca i cuori, ne demolisce le chiusure, indebolisce e supera ciò che fa da ostacolo all’incontro con Dio.

    Un simile atteggiamento consentiva al Card. Martini di collocarsi in maniera positiva nel difficile e continua discussione, presente nella Chiesa, a riguardo della ‘differenza cristiana’, tema difficile e ragione di continuo travaglio. Per alcuni la novità del cristianesimo è negata tutte le volte che non si afferma in pieno e con ogni mezzo la verità. Per altri occorre ricordare che non c’è una verità cristiana ‘fatta e finita’ da esporre e applicare. Occorre sempre da capo domandarsi quali sono le situazioni e le condizioni di vita nelle quali la Parola evangelica risuona. E dunque ritengono che occorre impegnarsi, con l’aiuto dello Spirito Santo, a rendere accessibile e attraente la verità cristiana nel contesto storico e culturale che va mutando. Si vede il fatto cristiano dal modo con cui una persona esercita la sua professione, vive la vita familiare, sviluppa un impegno sociale. Il Cardinale ha saputo insegnarci che il confronto tra Parola di Dio e cultura del nostro tempo è il modo corretto di rispettare la verità proposta dal Vangelo.

    Da ultimo ritengo che il Cardinale Martini insista con noi perché abbiamo ad amare la Chiesa. Questo suo voler bene alla comunità cristiana si è visto nello svolgersi della sua missione tra noi, a cominciare dalle piccole cose, fino alle più grandi. Le piccole: non si porta con sé da Roma, o dalla Compagnia di Gesù, dei collaboratori, ma li sceglie tra i sacerdoti e i laici della nostra Chiesa. Accetta con semplicità il rito ambrosiano, in tutte le sue particolarità. L’ampio giro del turibolo… Accoglie lo stile pastorale milanese, di cui siamo umilmente orgogliosi: una Chiesa di popolo, un laicato intraprendente e attivo, un clero che sta vicino alla gente.

    Ci insegna ad amare la Chiesa perché l’ha voluta più obbediente al Signore e al Suo vangelo, ma a partire da quella comunità concretamente esistente, con gli uomini che la governano, i suoi confratelli cardinali e vescovi e preti. Egli, quando ne parlava, sottolineava che la Chiesa non mai stata tanto cattolica come ora, diffusa nei diversi continenti, mai unita come in questi anni, straordinariamente ricca di teologi competenti, e di membri generosi, fino al martirio.

    Egli ha amato la Chiesa anche a costo di incomprensioni. Pensiamo alle illazioni e alle critiche  per aver proposto un cammino più ‘sinodale’ per la comunità cattolica. Egli parlava di un procedimento di conquista della verità condivisa, in un clima di creatività, di collegialità, di speranza. Dalla stampa laica gli venne attribuito di volere un nuovo Concilio Vaticano III.

    Su questa e su altre affermazioni laici e cattolici lo vollero mostrare in dialettica con il Papa. Mai ci fu ombra di critica espressa, sulle sue labbra, per i Pontefici con i quali collaborò. Ma certo ha mostrato un impegno vigoroso per correggere i lati non evangelici della via della nostra comunità, e per introdurre modalità nuove di vita di Chiesa: la lettura della Scrittura perché divenga più familiare ad ogni credente, la formazione dei laici e il rispetto per le loro competenze in campo civico, politico, culturale; l’Azione Cattolica, la collocazione dei movimenti nella vita della comunità, la valorizzazione dei consigli presbiterali e pastorali, la formazione e la vita del clero.

    Nell’ultima intervista da lui rilasciata (2012 “L’ultima intervista” a cura di G. Sporschill e F. Radice Confalonieri) all’intervistatore egli rivolge una domanda conclusiva: «Cosa puoi fare tu per la Chiesa?»”. E’ la domanda che questa sera egli rivolge a ciascuno di noi.