È giusta l’educazione ricevuta dai nostri padri e madri sul rispetto che si deve al luogo sacro: il segno della croce all’ingresso in chiesa; la genuflessione di fronte all’Eucaristia, segnalata dalla lampada rossa
accesa; il clima di silenzio e la compostezza durante le celebrazioni. Il Concilio Vaticano II però ci ha educato anche a essere attivi nell’azione liturgica, sia mediante lo svolgimento di alcuni ministeri (non solo celebranti o diaconi, ma anche chierichetti, lettori, cantori, ministri della Comunione eucaristica o incaricati di portare i doni all’altare o di raccogliere le offerte tra i fedeli), sia partecipando convintamente
alle preghiere, alle risposte, ai canti.
Il modello – anche se a taluno può non piacere – è la tavola familiare dove c’è chi svolge delle mansioni e tutti intervengono volentieri nella conversazione, ma anche si fa attenzione che nessuno sia privo di cibo o bevande. In chiesa invece molti vivono una sorta di paralisi trascendentale, non tanto per onorare l’Altissimo, ma per terrore di venire troppo coinvolti. Talvolta, se propongo a qualcuno anche solo di portare all’altare il pane e il vino all’offertorio, vengo squadrato come se lo volessi associare a una spedizione di mercenari sanguinari, e alla fine si sottrae.
Perché è così difficile vivere le celebrazioni con naturalezza, fratelli e sorelle premurosi uno dell’altro, seduti alla stessa mensa? Ed essere testimoni di fede: «Vedi? Anch’io prego con te e come te, con gioia!».