Chi ospita l’altro fa un dono anche a se
di ENZO BIANCHI
“Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”. Questa esortazione della Lettera agli Ebrei ci ricorda che l’accoglienza autentica crea un dialogo fecondo di cambiamenti e di arricchimenti per l’ospite come per l’ospitante: dal dialogo non si esce come vi si era entrati, e la sfida del dialogo richiede la disponibilità a intraprendere questo cammino. Nel dialogo emergono visioni inedite dell’altro, si fa strada la fine del pregiudizio, la scoperta di ciò che si ha in comune e anche di ciò che manca a ognuno degli interlocutori. Lì avviene la contaminazione lo spostamento dei confini: quell’altro che io situavo in una dimensione remota, si rivela molto più vicino e simile a me di quanto pensassi. Il confine resta, ma non è più luogo di conflitti o di malintesi, bensì di pacificazione e di incontro. L’ospitalità, che ha richiesto che si varcasse la soglia di una casa, ora si approfondisce e diviene incontro tra umani.
Certo, se non si attende nulla dall’altro, il dialogo nasce già morto: la sufficienza, il voler bastare a se stessi è di fatto negazione dell’altro, sia che lo si consideri come oggetto da possedere, sia che ci si rifiuti di vederlo e di prenderlo in considerazione. Ma se si accetta la presenza dell’altro, più ancora se si è disposti ad accoglierlo come “ospite interiore” riconoscendone le tracce presenti in noi, allora scocca la scintilla del dialogo autentico: si dà tempo all’altro, si scambiano parole che divengono doni reciproci. Il diá-logos infatti è una parola che si lascia attraversare da una parola altra, è un intrecciarsi di linguaggi, di sensi, di culture: gli interrogativi dell’altro diventano i miei, i suoi dubbi scomodano le mie certezze, le sue convinzioni interpellano le mie. Allora scopriremo che nel dialogo arriviamo a esprimere pensieri mai pensati prima, con l’affascinante percezione di sentirli a un tempo inauditi eppure familiari a noi stessi, finiamo per scoprire di avere da tempo tra le mani realtà che eravamo convinti di ignorare. È nel dialogo, in quel luogo privilegiato in cui ciascuno resta se stesso e nel contempo accetta il rischio di diventare “altro”, che l’ospite diviene la rivelazione di un dono che viene da “altrove”, la scoperta di un punto di vista inedito sulla propria esistenza, l’affiorare con parole e gesti dell’interiorità che ci abita.
E tutto questo a partire da un gesto molto semplice e concreto: il dare da bere e da mangiare all’ospite. Si sa che nei paesi mediterranei un bicchiere d’acqua o una tazza di caffè sono il gesto più spontaneo, più immediato di ospitalità. Ma oggi, nella nostra società, la tavola è ancora il centro, il polo attorno al quale si organizza la casa affinché sia ospitale? Fin dalla sua prima comparsa nell’evoluzione delle civiltà, la tavola si è manifestata come luogo fatto non solo per mangiare ma anche per comunicare: se il cibo non è «parlato», nutre solo aggressività, violenza e sopraffazione. La tavola in comune con l’ospite è lo spazio in cui il cibo è condiviso e il mangiare diventa «convivio», occasione di comunione vitale: è a tavola, alla tavola condivisa, che l’uomo ha l’opportunità ogni volta rinnovata di liberarsi dal suo essere «divoratore» – del cibo e dell’altro da sé – e di ridiventare ogni giorno uomo di comunione.
La tavola è infatti il luogo attorno al quale l’uomo ha cominciato a fare amicizia, a creare società, a stipulare alleanze. È atto comunionale per eccellenza. Mangiare è anche il comportamento umano più carico di simbolismo. Mangiare insieme, offrire il proprio cibo all’ospite, significa far entrare l’altro in una comunione profondissima con noi. Infatti, “noi mangiamo ciò che nostra madre ci ha insegnato a mangiare. Non solo – ci ricorda Leo Moulin – ma tale cibo ci piace e continuerà a piacerci per tutta la vita, perché noi mangiamo con i nostri ricordi … Anzi, noi mangiamo i nostri ricordi, perché ci danno sicurezza, conditi come sono di quell’affetto e di quella ritualità che hanno caratterizzato i nostri primi anni di vita”. Questo vale anche per la cultura-madre, per la cultura in cui siamo stati allevati, per la cucina particolare di quella regione o di quel paese che noi offriamo all’ospite (o che ci vediamo offrire). E capiamo anche, scoprendo il disgusto che ci può provocare il cibo che ci viene offerto quando siamo ospiti o le resistenze che l’altro manifesta di fronte ai cibi che noi gli offriamo quando lo ospitiamo, quanto siamo radicati in una storia particolare e quanto sia lungo e faticoso il cammino verso l’incontro con l’altro.
Ora, dalla condivisione della parola nel dialogo e del cibo attorno a una tavola nasce una conoscenza nuova dell’ospite: colui che era estraneo, di cui si ignorava la provenienza, di cui si faticava a comprendere il linguaggio, è ora divenuto qualcuno di familiare, parte di quella cerchia di persone e di mondi che costituisce il «nostro» mondo, fatto di somiglianze e di alterità, di consuetudini e di novità, di tradizioni ricevute e di nuove strade imboccate.
E questo elemento «socializzante» dell’ospitalità non dovrebbe essere dimenticato. Quando uno di noi accoglie un altro, infatti, non è mai solo: nel mio accogliere l’altro c’è sempre con me la mia storia, le persone che l’hanno attraversata, gli incontri che l’hanno determinata, la cultura che l’ha orientata. Analogamente, anche l’ospite accolto non è un individuo a sé stante, non giunge mai solo: con sé porta il suo passato, le persone e le vicende che lo hanno fatto soffrire o gioire, le speranze e le disillusioni, il futuro atteso e quello ignoto. Sì, anche nel faccia a faccia di due singole persone, l’ospitalità resta il luogo comunitario per eccellenza: sono due mondi che si incontrano attraverso l’intrecciarsi di due sguardi e il dialogare di due volti.
L’ospitalità è un dono! Dono a chi è ospitato, dono a chi ospita. Certo, l’ospitalità è solo una tappa, non può essere tradotta in situazione definitiva perché essa si indirizza sempre a nuovi interlocutori temporanei che si affacciano alla soglia della casa o della città. La condizione dell’ospite è quella di chi non resta, altrimenti diventa un membro e perde la propria qualità di forestiero, straniero, altro, pellegrino: l’ospitalità è un rito di passaggio, il dono temporaneo di uno spazio.
Praticare così l’ospitalità, allora, porterà con sé un dono inatteso: quasi inavvertitamente finiremo per scoprire che facendo spazio all’altro nella nostra casa e nel nostro cuore, la sua presenza non ci sottrae spazio vitale ma allarga le nostre stanze e i nostri orizzonti, così come la sua partenza non lascerà un vuoto, ma dilaterà il nostro cuore fino a consentirgli di abbracciare il mondo intero.
Enzo Bianchi
Priore del monastero di Bose